A mi padre…..

113….centotredici anni fa in via della Spiga a Milano nasceva uno se non l’unico grande amore della mia vita, mio babbo ed è  a lui  che oggi dedico questo post.

Nonno Jacopo, nonna Piera, zio Ilio e mio padre Italo accanto a sua madre

Nonno Jacopo, nonna Piera, zio Ilio e mio padre Italo accanto a sua madre

Lido di Camaiore 1929

Lido di Camaiore 1929

Firenze 2 luglio 1949 Chiesa San Jacopino

Firenze 2 luglio 1949
Chiesa San Jacopino

Firenze 2 luglio 1949

Firenze 2 luglio 1949

Firenze 2 luglio 1949 Il loro matrimonio

Firenze 2 luglio 1949
Il loro matrimonio

Lido di Camaiore 1949 Mio padre, mamma e la nonna fiorentina Ida

Lido di Camaiore 1949
Mio padre, mamma e la nonna fiorentina Ida

Lido di Camaiore luglio 1951 Cristina la primogenita

Lido di Camaiore luglio 1951 Cristina la primogenita

Mi hai concepito, mi hai amata, mi hai protetta, sento ancora sulle guance il bacio della buona notte, la tua voce calda nel cantarmi le canzoni della ninna nanna, le nostre lunghe camminate, le visite ai musei, le lezioni di francese. Eri il mio eroe babbo, non conoscevi l'egoismo, la cattiveria, la superbia eri un uomo meraviglioso....... Oggi ricorre il giorno del tuo compleanno, mi hai lasciato 19 lunghi anni fa e, non passa giorno che il tuo ricordo non mi abbandoni Ti amo babbino mio

Mi hai concepito, mi hai amata, mi hai protetta, sento ancora sulle guance il bacio della buona notte, la tua voce calda nel cantarmi le canzoni della ninna nanna, le nostre lunghe camminate, le visite ai musei, le lezioni di francese. Eri il mio eroe babbo, non conoscevi l’egoismo, la cattiveria, la superbia eri un uomo meraviglioso……. Oggi ricorre il giorno del tuo compleanno, mi hai lasciato 19 lunghi anni fa e, non passa giorno che il tuo ricordo non mi abbandoni
Ti amo babbino mio

Lido di Camaiore agosto 1976, con la sua adorata Simona

Lido di Camaiore agosto 1976, con la sua adorata Simona

Simona al nonno....Raccontami di te. Ascoltami. Dimmi di quando eri bambino. Portami dove le altalene arrivano al cielo. Insegnami ancora a giocare a ramino. Prendiamo insieme l'autobus e andiamo in centro, a vedere le chiese, i musei, l'Arno che non è mai uguale. Saliamo su un treno, lasciamo che le rotaie ci conducano in una delle tue città. Guardiamo il mare. Torna qua, abbracciami, stammi vicino.

Simona al nonno….Raccontami di te.
Ascoltami.
Dimmi di quando eri bambino.
Portami dove le altalene arrivano al cielo.
Insegnami ancora a giocare a ramino.
Prendiamo insieme l’autobus e andiamo in centro, a vedere le chiese, i musei, l’Arno che non è mai uguale.
Saliamo su un treno, lasciamo che le rotaie ci conducano in una delle tue città.
Guardiamo il mare.
Torna qua, abbracciami, stammi vicino.

Simona...

Simona… L’EQUAZIONE PERFETTA

Ti prendo per mano e ti porto davanti alla ferrovia. Chiudi gli occhi ti dico, qui passano i treni dell’estate. Quelli che puoi scendere di macchina perché la barra del passaggio a livello starà giù per molto. Ti appoggio il cappellino sulla testa e guardo avanti. Prova ad ascoltare ti dico, lo senti? Sta arrivando. Mi emoziono come quando avevo cinque anni, perché i treni mi sono sempre piaciuti. Perché tu mi hai insegnato ad amarli.

I viaggiatori sono persone migliori delle altre. L’ho imparato conoscendoli. Sono persone che sanno guardare oltre perché hanno visto tanto. Sono come te. Tu sei l’uomo migliore che abbia mai conosciuto. Sei quello che mi faceva giocare al flipper di domenica mattina. Quello che mi faceva salire su quelle sedie che c’erano nei bar negli anni Ottanta, dove la struttura era tenuta insieme da fili di plastica rossi o blu. Le sedie della mia infanzia. Erano gli anni delle cinquecento lire di carta, del gelato con la faccia della pantera rosa o di quello con il bastoncino alla liquirizia. Te lo ricordi? Tu te ne stavi in giardino a giocare a carte prima di andare a pranzo, nella tua casa di fronte alla chiesa. C’era Pippo con noi, il barboncino nero. E io starnutivo, quando c’era il sole. “Salut! Bon die!”, mi dicevi. E le tue mani erano grandi come quelle di nessun altro. Riuscivano a tenere aperte come un ventaglio le tredici carte del ramino. Tu mi hai insegnato a vincere, a giocare d’astuzia, a far credere che stai messo male all’avversario e poi chiudere in mano. Adesso potrei anche batterti sai? Tu mi guardi e capisco che una partitina te la faresti anche prima di cena. Il treno passa e mi smuove i capelli. Tante carrozze, tantissime. È una vecchia locomotiva che schiaccia le rotaie cotte dal sole e se ne va.

L’aria del mare mi rilassa i pensieri mentre torniamo in auto e partiamo. Prima, seconda, terza. E la strada va. Guardo le tue braccia magre e lunghe, le ginocchia che ballano mentre l’autoradio suona le canzoni che ti piacciono. Io guido e tu canticchi. E batti le mani sulle gambe. Vorrei dirti che ti amo. Ma il nostro è un amore che non ha bisogno di parole. Le Apuane sono lì, si avvicinano. E Camaiore sembra un bocciolo di rosa accoccolato tra i boschi verdi, brillanti nella quiete dell’ombra. Si può sentire l’acqua del Teneri scorrere, lì dove i girini forse ci sono ancora.

È tutto come vorrei con te. È tutto come vorrei quando ci sei. Sei l’equazione perfetta. Tu che riesci a finire tutte le parole crociate e sbucci le pesche come io non riuscirò mai a fare. Tu che segni i numeri di telefono sulla confezione di fiammeri, che sei intelligente e brillante. Tu che sei tutto, anche oggi che non ci sei. “Mi porti a Pontremoli domani?” Ti chiedo a bruciapelo. Voglio mangiare i testaroli al pesto. Mi guardi e annuisci. “Prima vinci questa partità però” – mi rispondi. È un sì sottinteso. Nella taschina della polo blu a righe verdi hai già i nostri due biglietti del treno. Sai già che andremo al ristorante dove si fermano i camionisti, che li si mangia bene. “Di te mi fido” – ti dico mentre calo la chiusura e tu hai ancora tutte le carte in mano. Ti aggiusti gli occhiali e incroci le gambe, come fanno le donne. “Sei la migliore di tutte, l’ho sempre saputo” – mi rispondi. Ti abbraccerei sai. Non lo faccio. Ma tu rimarrai sempre l’uomo che mi ha fatto sentire importante. E tu per me sarai sempre l’uomo dei treni. Il mio grande, unico viaggiatore.

 

 Simona Una lettera scritta nel 2008, regalata alla rete. Da quel giorno non è cambiato niente, mi manchi oltre ogni cosa. “Avevo pensato che non avrei più preso in mano un foglio di carta per mettermi a scrivere, negli ultimi tempi mi sono anche sentita un po’ idiota sentendo la voglia irrefrenabile di stringere tra le mani una stilografica nera e far stridere il pennino su un quaderno a righe trovato in uno dei miei scatoloni, in cantina. Mia mamma li ha messi lì, sugli scaffali, in ordine, di fronte alle bottiglie di vino e a quelle in vetro scuro della Fanta, lasciate lì a futuro ricordo. Su ogni scatolone c’è il mio nome, scritto con il pennarello nero indelebile a punta larga, che si intravede tra qualche strato di polvere: c’è su scritto “Simona – bambole” oppure “Simona – libri” , “Simona – disegni” e poi c’è il mio preferito: “Simona quaderni e temi di scuola”. Ho “forzato” spesso quello scatolone negli anni togliendo il nastro adesivo marrone che chiudeva i ricordi della mia infanzia. Prendevo i temi, scritti nel foglio protocollo, i quaderni e correvo in camera mia. Me ne stavo seduta a terra, con il marmo che mi freddava le cosce e i ricordi che mi scaldavano gli occhi. Leggevo i temi e sorridevo. La maestra si raccomandava di dividere il foglio protocollo in due parti e, di passarci con il dito, per assicurarsi che la piega fosse perfetta. Dovevamo scrivere nella colonna sulla sinistra, la destra era riservata alle correzioni. La mia colonna destra era invece rigorosamente bianca. L’unica scritta in rosso, nei miei temi, era quella con il giudizio e sono sempre andata orgogliosa di questo. E poi c’erano i miei quaderni. Quelli che ho tra le mani anche oggi. Sono della prima elementare. Ci sono solo parole e disegni. B come banco, G come gheriglio, D come Dado. Disegnare il gheriglio mi risultata davvero difficile tanto che chiedevo l’aiuto della nonna. Io mi limitavo a colorare. E quelle righe dei quaderni così piccole mi disturbavano. “Perché devo scrivere tra le righe?” – chiedevo a mia mamma. “ E’ più bello il foglio bianco”. Oggi guardo quei quaderni con la doppia riga ed ho invece voglia di passarci la stilografica, in bella calligrafia. Non so se ti ricordi i fogli con la doppia riga, quelli in cui ti permettono di scrivere dalla seconda o terza elementare. Se la memoria non mi inganna mi par di rammentare che sono i primi nei quali inizi a scrivere, rigorosamente in stampatello. La maestra infatti voleva quei quaderni. Solo quando sei bravo e hai imparato a dominare la tua mano, a plasmare i caratteri puoi passare alle righe grandi e larghe. Ma non era questo che volevo dire. Come sempre allargo i pensieri e le parole e perdo di vista il succo delle cose. Ti dicevo che avevo deciso che non avrei più scritto. E invece sono qua, con una lettera tra le mani. L’ho scritta in nero, come mi ha insegnato la maestra. In bella calligrafia, strusciando la mano sinistra sulla carta cercando di non sporcarla con l’inchiostro fresco. Ho voluto macchiarla di pensieri e di sogni, di passato e di futuro. Ho scelto la carta, come facevo quando avevo vent’anni e non c’erano i computer. L’ho bagnata di lacrime e di parole, l’ho intrisa di ricordi e di racconti, quelli che di solito, nonno, ti facevo sull’autobus quando mi portavi a comprare le bambole da Gian Burrasca, in Via dell’Olivuzzo, ogni volta che tornavi da uno dei tuoi viaggi. Tu mi sorridevi, prendevi le sigarette dalla tasca interna del cappotto e cercavi i fiammiferi nei pantaloni. Non le scatole con centomila cerini ma i fiammiferi, quelli di legno da venti, con la confezione in cartone che si apriva e ci potevi appuntare con la penna i numeri di telefono. Ho scelto una carta che avesse lo stesso odore di legna bruciata che si respira nella tua Camaiore, tra Via di Mezzo e Le Muretta, pura come le tue Apuane che scorgevamo insieme dal Prado, vera come il tuo mare. Quello che guardavi dalla battita avvicinando la mano alla fronte, come fanno i marinai per scansare i raggi del sole e scrutare meglio l’orizzonte. L’ho scritta appoggiata alla sdraio intrisa di salmastro, con la sabbia fredda di oggi, gettando sguardi fugaci verso le altalene dove mi spingevi in aria fino a toccare il cielo. Ogni spinta sempre più su, con le catene che cigolavano e alle quali mi tenevo salda mentre chiudevo e allargavo le ginocchia per andare sempre più in alto. Ho scelto parole che ti raccontassero di me e di tutto quello che non sai ed ho scritto tanto, così le mie pagine ti faranno compagnia durante il viaggio, in mezzo ai vagoni di treni dimenticati dalla memoria, nelle stazioni delle tue città, negli scompartimenti dove un tempo si poteva fumare. Ho scritto una pagina per ogni fermata, nonno. Milano, Ravenna, Forlì, Bologna, Genova e mano a mano tutte le altre. Ad ogni stazione io ci sarò . E ti farò ciao con la mano lanciandoti un bacio mentre il treno si allontana dalla stazione. Ti aspetterò seduta su ogni panchina, aspetterò il tuo ritorno. Con queste parole in mano, scritte con l’inchiostro nero, avvolta in un montgomery caldo per non sentire il freddo della tua assenza, ti aspetterò davanti ad ogni passaggio a livello, di fronte ad ogni altalena del Lido, passando dal bar di fronte alla chiesa. Guarderò se si apre il portone della tua casa nella piazza, sperando di vederti uscire dopo essere sceso con l’ascensore. Io non ti mai detto addio, nonno. E tu non mi hai mai fatto ciao con la mano prima di sparire dentro a quel treno vuoto. C’era mare e terra che ci divideva e io non ti ho visto. Non ti ho sentito. Non ho scorso le tue mani lunghe tagliare l’aria aperte per salutarmi. Così ripiego questo foglio, in quattro parti, e ci passo con il pollice e l’indice per segnare la riga. Chiudo lo scatolone, di nuovo con il nastro adesivo. Lo metto insieme agli altri, sugli scaffali, come vuole mia madre. Salgo le scale che mi riportano a casa e lascio il mio amore ad aspettare, sotto centimetri di polvere sui quali nessuno soffierà più”.

Simona
Una lettera scritta nel 2008, regalata alla rete. Da quel giorno non è cambiato niente, mi manchi oltre ogni cosa.
“Avevo pensato che non avrei più preso in mano un foglio di carta per mettermi a scrivere, negli ultimi tempi mi sono anche sentita un po’ idiota sentendo la voglia irrefrenabile di stringere tra le mani una stilografica nera e far stridere il pennino su un quaderno a righe trovato in uno dei miei scatoloni, in cantina. Mia mamma li ha messi lì, sugli scaffali, in ordine, di fronte alle bottiglie di vino e a quelle in vetro scuro della Fanta, lasciate lì a futuro ricordo. Su ogni scatolone c’è il mio nome, scritto con il pennarello nero indelebile a punta larga, che si intravede tra qualche strato di polvere: c’è su scritto “Simona – bambole” oppure “Simona – libri” , “Simona – disegni” e poi c’è il mio preferito: “Simona quaderni e temi di scuola”. Ho “forzato” spesso quello scatolone negli anni togliendo il nastro adesivo marrone che chiudeva i ricordi della mia infanzia. Prendevo i temi, scritti nel foglio protocollo, i quaderni e correvo in camera mia. Me ne stavo seduta a terra, con il marmo che mi freddava le cosce e i ricordi che mi scaldavano gli occhi. Leggevo i temi e sorridevo. La maestra si raccomandava di dividere il foglio protocollo in due parti e, di passarci con il dito, per assicurarsi che la piega fosse perfetta. Dovevamo scrivere nella colonna sulla sinistra, la destra era riservata alle correzioni. La mia colonna destra era invece rigorosamente bianca. L’unica scritta in rosso, nei miei temi, era quella con il giudizio e sono sempre andata orgogliosa di questo. E poi c’erano i miei quaderni. Quelli che ho tra le mani anche oggi. Sono della prima elementare. Ci sono solo parole e disegni. B come banco, G come gheriglio, D come Dado. Disegnare il gheriglio mi risultata davvero difficile tanto che chiedevo l’aiuto della nonna. Io mi limitavo a colorare. E quelle righe dei quaderni così piccole mi disturbavano. “Perché devo scrivere tra le righe?” – chiedevo a mia mamma. “ E’ più bello il foglio bianco”.
Oggi guardo quei quaderni con la doppia riga ed ho invece voglia di passarci la stilografica, in bella calligrafia. Non so se ti ricordi i fogli con la doppia riga, quelli in cui ti permettono di scrivere dalla seconda o terza elementare. Se la memoria non mi inganna mi par di rammentare che sono i primi nei quali inizi a scrivere, rigorosamente in stampatello. La maestra infatti voleva quei quaderni. Solo quando sei bravo e hai imparato a dominare la tua mano, a plasmare i caratteri puoi passare alle righe grandi e larghe. Ma non era questo che volevo dire. Come sempre allargo i pensieri e le parole e perdo di vista il succo delle cose.
Ti dicevo che avevo deciso che non avrei più scritto. E invece sono qua, con una lettera tra le mani. L’ho scritta in nero, come mi ha insegnato la maestra. In bella calligrafia, strusciando la mano sinistra sulla carta cercando di non sporcarla con l’inchiostro fresco. Ho voluto macchiarla di pensieri e di sogni, di passato e di futuro. Ho scelto la carta, come facevo quando avevo vent’anni e non c’erano i computer. L’ho bagnata di lacrime e di parole, l’ho intrisa di ricordi e di racconti, quelli che di solito, nonno, ti facevo sull’autobus quando mi portavi a comprare le bambole da Gian Burrasca, in Via dell’Olivuzzo, ogni volta che tornavi da uno dei tuoi viaggi. Tu mi sorridevi, prendevi le sigarette dalla tasca interna del cappotto e cercavi i fiammiferi nei pantaloni. Non le scatole con centomila cerini ma i fiammiferi, quelli di legno da venti, con la confezione in cartone che si apriva e ci potevi appuntare con la penna i numeri di telefono. Ho scelto una carta che avesse lo stesso odore di legna bruciata che si respira nella tua Camaiore, tra Via di Mezzo e Le Muretta, pura come le tue Apuane che scorgevamo insieme dal Prado, vera come il tuo mare. Quello che guardavi dalla battita avvicinando la mano alla fronte, come fanno i marinai per scansare i raggi del sole e scrutare meglio l’orizzonte.
L’ho scritta appoggiata alla sdraio intrisa di salmastro, con la sabbia fredda di oggi, gettando sguardi fugaci verso le altalene dove mi spingevi in aria fino a toccare il cielo. Ogni spinta sempre più su, con le catene che cigolavano e alle quali mi tenevo salda mentre chiudevo e allargavo le ginocchia per andare sempre più in alto. Ho scelto parole che ti raccontassero di me e di tutto quello che non sai ed ho scritto tanto, così le mie pagine ti faranno compagnia durante il viaggio, in mezzo ai vagoni di treni dimenticati dalla memoria, nelle stazioni delle tue città, negli scompartimenti dove un tempo si poteva fumare. Ho scritto una pagina per ogni fermata, nonno. Milano, Ravenna, Forlì, Bologna, Genova e mano a mano tutte le altre. Ad ogni stazione io ci sarò . E ti farò ciao con la mano lanciandoti un bacio mentre il treno si allontana dalla stazione. Ti aspetterò seduta su ogni panchina, aspetterò il tuo ritorno. Con queste parole in mano, scritte con l’inchiostro nero, avvolta in un montgomery caldo per non sentire il freddo della tua assenza, ti aspetterò davanti ad ogni passaggio a livello, di fronte ad ogni altalena del Lido, passando dal bar di fronte alla chiesa.
Guarderò se si apre il portone della tua casa nella piazza, sperando di vederti uscire dopo essere sceso con l’ascensore. Io non ti mai detto addio, nonno. E tu non mi hai mai fatto ciao con la mano prima di sparire dentro a quel treno vuoto. C’era mare e terra che ci divideva e io non ti ho visto. Non ti ho sentito. Non ho scorso le tue mani lunghe tagliare l’aria aperte per salutarmi. Così ripiego questo foglio, in quattro parti, e ci passo con il pollice e l’indice per segnare la riga. Chiudo lo scatolone, di nuovo con il nastro adesivo. Lo metto insieme agli altri, sugli scaffali, come vuole mia madre. Salgo le scale che mi riportano a casa e lascio il mio amore ad aspettare, sotto centimetri di polvere sui quali nessuno soffierà più

Simona.... L'EQUAZIONE PERFETTA Ti prendo per mano e ti porto davanti alla ferrovia. Chiudi gli occhi ti dico, qui passano i treni dell’estate. Quelli che puoi scendere di macchina perché la barra del passaggio a livello starà giù per molto. Ti appoggio il cappellino sulla testa e guardo avanti. Prova ad ascoltare ti dico, lo senti? Sta arrivando. Mi emoziono come quando avevo cinque anni, perché i treni mi sono sempre piaciuti. Perché tu mi hai insegnato ad amarli. I viaggiatori sono persone migliori delle altre. L’ho imparato conoscendoli. Sono persone che sanno guardare oltre perché hanno visto tanto. Sono come te. Tu sei l’uomo migliore che abbia mai conosciuto. Sei quello che mi faceva giocare al flipper di domenica mattina. Quello che mi faceva salire su quelle sedie che c’erano nei bar negli anni Ottanta, dove la struttura era tenuta insieme da fili di plastica rossi o blu. Le sedie della mia infanzia. Erano gli anni delle cinquecento lire di carta, del gelato con la faccia della pantera rosa o di quello con il bastoncino alla liquirizia. Te lo ricordi? Tu te ne stavi in giardino a giocare a carte prima di andare a pranzo, nella tua casa di fronte alla chiesa. C’era Pippo con noi, il barboncino nero. E io starnutivo, quando c’era il sole. “Salut! Bon die!”, mi dicevi. E le tue mani erano grandi come quelle di nessun altro. Riuscivano a tenere aperte come un ventaglio le tredici carte del ramino. Tu mi hai insegnato a vincere, a giocare d’astuzia, a far credere che stai messo male all’avversario e poi chiudere in mano. Adesso potrei anche batterti sai? Tu mi guardi e capisco che una partitina te la faresti anche prima di cena. Il treno passa e mi smuove i capelli. Tante carrozze, tantissime. È una vecchia locomotiva che schiaccia le rotaie cotte dal sole e se ne va. L’aria del mare mi rilassa i pensieri mentre torniamo in auto e partiamo. Prima, seconda, terza. E la strada va. Guardo le tue braccia magre e lunghe, le ginocchia che ballano mentre l’autoradio suona le canzoni che ti piacciono. Io guido e tu canticchi. E batti le mani sulle gambe. Vorrei dirti che ti amo. Ma il nostro è un amore che non ha bisogno di parole. Le Apuane sono lì, si avvicinano. E Camaiore sembra un bocciolo di rosa accoccolato tra i boschi verdi, brillanti nella quiete dell’ombra. Si può sentire l’acqua del Teneri scorrere, lì dove i girini forse ci sono ancora. È tutto come vorrei con te. È tutto come vorrei quando ci sei. Sei l’equazione perfetta. Tu che riesci a finire tutte le parole crociate e sbucci le pesche come io non riuscirò mai a fare. Tu che segni i numeri di telefono sulla confezione di fiammeri, che sei intelligente e brillante. Tu che sei tutto, anche oggi che non ci sei. “Mi porti a Pontremoli domani?” Ti chiedo a bruciapelo. Voglio mangiare i testaroli al pesto. Mi guardi e annuisci. “Prima vinci questa partità però” – mi rispondi. È un sì sottinteso. Nella taschina della polo blu a righe verdi hai già i nostri due biglietti del treno. Sai già che andremo al ristorante dove si fermano i camionisti, che li si mangia bene. “Di te mi fido” – ti dico mentre calo la chiusura e tu hai ancora tutte le carte in mano. Ti aggiusti gli occhiali e incroci le gambe, come fanno le donne. “Sei la migliore di tutte, l’ho sempre saputo” – mi rispondi. Ti abbraccerei sai. Non lo faccio. Ma tu rimarrai sempre l’uomo che mi ha fatto sentire importante. E tu per me sarai sempre l’uomo dei treni. Il mio grande, unico viaggiatore. Mostra m

Simona …Telefonata al Paradiso 

Lido di Camaiore 1980 Jacopo con il nonno

Lido di Camaiore 1980 Jacopo con il nonno

 Un nonno amoroso per i suoi nipoti. Qui con Jacopo

 Firenze 1981 Un nonno amoroso per i suoi nipoti. Qui con Jacopo

“A Mio Padre”

 Passo dopo passo arrivi

accompagnata dal silenzio che ti avvolge  il  pensiero..

in cima al molo.

Sei sola, la nebbia, ti fa compagnia,

 il mare ti e ‘ amico..

 riflette quel corpo,avvolto in quel palto’ verde smeraldo. 

Cerchi,con lo sguardo perso all’orizzonte,

 la risposta che ancora non arriva.

Cerchi, di risentire l’eco di quella voce,che il mare non riporta.

Ti giri, guardi verso la terra ferma.

Chi cerchi?

 Chi vuoi vedere camminare lungo il pontile.

Ciechi, gli occhi verdi….ciechi e bagnati.

Avvolta nel tuo palto’, verde smeraldo….

cosi’ ti riflette il mare vedendoti andar via.

Lentamente te ne vai,

 accompagnata da quella nebbia che il tempo non dissolve….

A mio padre con amore

Cristina

 

A mi padre…..ultima modifica: 2022-05-31T16:18:56+02:00da cri1950
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