
05/04/2007
Emiliano Mondonico ci applaude:”Questa Juve è una lezione per tutto il calcio”.Ora manca solo Zeman..
di Valerio Fregoni Direttore editoriale www.juvenews.net
CARTA e penna, per una lettera. Come una volta. Non usa più, oggi. C’è l’e-mail, gelida come un ghiacciolo e volgare come un messaggio anonimo. La calligrafia era rivelatrice di emozioni e di passioni. Difficile poter bluffare. Attraverso gli scritti computerizzati, ora, anche un serial killer può mascherarsi da santo. Con la complicità di qualche sopravvissuto, però, è ancora possibile compiere un passo indietro. E il postino, come sempre, suonerà due volte. Saranno lettere da un altro mondo. Da Rivolta d’Adda, per l’esattezza, che è un piccolo paese di fiume prezioso come una riserva indiana.
Giusto lei. Emiliano Mondonico. A chi vogliamo indirizzare la prima lettera?
«A tutti i sessantenni come me. Li ho appena compiuti. E, appena dopo aver toccato questo traguardo, mi sono reso conto era arrivato il tempo del carpe diem ovvero di vivere la vita giorno per giorno senza la necessità di fare programmi. Il passato, naturalmente, non si cancella. Ma la gioia sta proprio nel fatto di poterlo raccontare».
Si dice, nascere rivoluzionari e morire pompieri. Cosa ne pensa, lei?
«Che conosco un sacco di ultrasettantenni da battaglia. Paoli, Monicelli, Villaggio, Fo i primi che mi vengono in mente nel mondo della spettacolo. Io? Sono nato indiano e morirò indiano, governato dalla spensieratezza e da quel pizzico di incoscienza che non debbono mai rappresentare un freno».
A una certa età si è liberi di dire ciò che si pensa.
«A una certa età si pensa ciò che poi si dirà, senza falsi pudori».
La seconda lettera a chi vuole mandarla?
«Alla natura. Al vento, all’acqua, agli animali dei boschi che circondano casa mia. E’ fondamentale capire dove vivi per decidere come vivere. Potrebbero richiudermi in una stanza buia e io, in base ai rumori che sento arrivare, saprei esattamente che cosa capita all’esterno. La natura ti offre il senso stesso dell’esistenza» E gli uomini. «Sono sicuramente molto meno affidabili, se si escludono quelli che compongono la mia piccola comunità di brava gente».
Ha voglia di inviare due righe a Maradona, oggi vittima dell’alcolismo?
«Non prima di aver scritto ai miei ragazzi i quali, anche grazie al mio lavoro, stanno cercando di uscire dal tunnel dell’etilismo. Li alleno tutte le mattine, nell’oratorio della chiesa di Rivolta. Un ciclo di sedute che dura tre settimane per ciascun gruppo. Io cerco di aiutarli dal punto di vista fisico, loro certamente mi offrono ciò che mi consente di crescere moralmente. Danno più loro a me di quanto non riesca a fare io con loro. Capire il disagio altrui significa crescere e l’età non c’entra. A Diego scrivo di aprire gli occhi perché c’è gente in grado di aiutarlo. Deve soltanto aver voglia lui di farsi aiutare».
Ora una lettera al calcio, Mondonico. Al grande calcio, intendo. Prova mai il desiderio di dirgli: sono qui pronto a tornare.
«Assolutamente no. Vede, non ho mai fatto alcuna distinzione tra la possibilità di entrare in un grande stadio piuttosto che in uno di provincia. I novanta minuti li ho sempre vissuti con il medesimo stato d’animo. Sicché non scrivo al calcio che conta, ma a una curva. E’ lei che mi manca, in senso ampio. Manca a me come manca ai miei ragazzi dell’Albinoleffe i quali se, per esempio, potessero contare su di una curva come quella dello Spezia probabilmente si esalterebbero di più di quel che già riescono a fare».
Una lettera al Comunale, oggi Olimpico, potrebbe scriverla. Domani sarà lì. Da quanto tempo non accadeva?
«Una vita, da allenatore. L’ultima volta fu contro la Juventus di Platini e di Boniek, con la mia Cremonese. Ricordo bene. Non tanto perché perdemmo sei a uno, ma perchè tornando nello spogliatoio, tra un tempo e l’altro, trovai Zibì sdraiato sul lettino che mentre si faceva frizionare dal nostro massaggiatore diceva: finalmente un lavoro fatto bene. Naturalmente scherzava. Si era fatto accompagnare da Zmuda, il nostro giocatore suo amico polacco come lui».
E come ex giocatore del Torino, rammenta nulla?
«Certo. Che nei derby stavo principalmente in panchina e il Toro perdeva. Mi dicevano, spogliati. Non appena ero pronto, il Toro pareggiava e io tornavo a sedermi».
Due righe di ringraziamento dovrebbe inviarle anche ai ministri Amato e Melandri. Grazie a quella che è ormai legge dello Stato, domani lei non troverà striscioni irriverenti, né sarà costretto ad ascoltare cori infamanti da parte dei tifosi bianconeri che, come è noto, non la amano.
«Un decreto che sarà utile solo se servirà seriamente a far riflettere. Nel caso venisse inteso solamente come atto privativo della libertà individuale, il suo valore sarebbe misero».
Intanto, dagli stadi scomparirà anche l’icona di Che Guevara.
«Guardi, io appartengo a quella categoria di ex giovani i quali vissero in prima persona e attivamente il Sessantotto. Non mi pento di nulla, anche se talvolta ho l’impressione che ci abbiano preso un po’ per il culo. La politica, oggi, mi lascia perplesso. Una volta esistevano colori ben precisi e netti. Oggi si vorrebbe miscelare ciascuna ideologia per farne un’unica tinta. Non mi piace».
Christian Vieri ha giocato con la squadra Primavera dell’Atalanta. Meriterebbe una sua lettera.
«Di encomio e di gioia. Non avessi avuto l’allenamento sarei andato a vederlo. Così facendo, ha dimostrato di essere il grande ragazzo che io ho sempre conosciuto e stimato. Un campione autentico oltre ogni tipo di categoria».
Ma il calcio, oggi, dice di voler puntare sui giovani. Sarà vero, visto che poi vengono ingaggiati per far spettacolo i Ronaldo assortiti? In ogni caso, una lettera ai ragazzini andrebbe indirizzata, non le pare?
«Vorrei tanto poterlo fare. Ma il dramma è che i giovani non ci sono più. A dodici anni si atteggiano da personaggi, a quindici si sentono star. Tremendo. Ho un nipotino di quattro anni. A volte tento di raccontargli una favola di quelle che sentivo dai miei. Dopo un poco, mi fa: ma nonno, non esiste nulla di quello che dici. I ragazzini mi fanno paura perché nei loro occhi è impossibile cogliere l’ingenuità e perché dentro di loro non esiste la sana giovinezza. I loro parametri sono determinati dalle lunghe modelle e dagli uomini palestrati. La loro maestra di vita è la comunicazione selvaggia e non più domabile. Lei, la regina del male».
Anche lei Mondonico, però, frequenta certi palcoscenici televisivi.
«E’ vero. Ma cerco di farlo in maniera non becera e sempre come se dall’altra parte della telecamera ci fossi io, seduto in poltrona, a vedere e ad ascoltare. Vede, il segreto sarebbe quello di far conoscere alla gente le cose positive, anche se poche, anziché insistere su quelle marce che alla fine fanno marcire tutto ».
Lei scappava di casa per andare ad un concerto dei Beatles.
«E mi prendevo le botte da mio padre e la sospensione a scuola. Oggi certi padri picchiano gli insegnanti. Eppoi, però, io scappavo anche per andare a San Siro a vedere il sinistro di Corso o a Genova quello di Meroni. Non per andare a spaccare la testa alla gente perché è anche così che ci si può sentire famosi e potenti grazie alle immagini televisive ». Ultima lettera, Mondonico. Alla Juventus, non fosse altro per via dell’appuntamento di domani. Lei disse, a inizio campionato, per la prima volta provo simpatia verso la squadra bianconera. Conferma?
«Confermo e aggiungo. Non solo simpatia, ma anche grande rispetto. I suoi tifosi, in primo luogo, poi la società e i giocatori hanno saputo dare una lezione epocale al mondo del calcio con il loro comportamento morale e agonistico. Non a caso, quest’anno, la Serie B si è rivelata più importante della Serie A».
Ma non è che tornando ai massimi livelli, la prossima stagione, anche la Juventus tornerà a percorrere gli antichi passi? «Assolutamente no. Dopo certe rivoluzioni, specialmente quelle di carattere etico, è impossibile tornare indietro. Saranno tutte le altre, semmai, che dovranno allinearsi lungo il tracciato segnato in maniera sportivamente storica dalla Juventus ».
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